L’uomo Liquido ~ Parte Terza

TACCUINO #12

A ergersi in cattedra anche i professori di filosofia, soldati del cristianesimo.

Sull’istruzione di scuole, inferiori e superiori.

Decadenti istituti organizzati, fatiscenti sottosuoli che istruiscono bravi e invitano perle sociali che vivono anni al museo, e subiscono storie in ogni lingua, tra chi vince e muore all’interno di statue totemiche, e chi avrebbero dato luce a color che pensano. Sullo scadere del tempo pattuito allo staccare del primo biglietto, si esce senza saper usare un ricco vocabolario passivo, ebbri di simbologia, certi di poter navigare a cinque velocità per trasferire l’immagine offuscata da tagli filtrati e bersagliare nuovi istituti organizzati al fine di accrescere il borsino dell’ultimo numero che produrrà capitali per il mausoleo più grande. Si apre il disgustoso giuoco della seducente industria che dimostra infallibilità nel fallire ogni promessa. Il topo avrà miglior gratificazione nel circuito di laboratorio a ogni pressione di leva. Potrebbe non sentirsi povero ingranaggio burocratico che muove esistenza obtorto collo sulle basi piramidali di una macchina delirante non funzionante ma funzionale. Quella sensazione piacevole nell’egolatra, tutta passiva. L’incarnato effimero che sposta respiro sula vigilia perpetua che chiaman bios. Una mente indottrinata condiziona il proprio sociale, credendo sia senso, direzione. Nella realtà, manifestazioni traducono l’apparire, attraverso interpretazione. Se si cogliesse l’errore, si attiverebbe un processo critico che innescherebbe una pericolosa sana proiezione in astrazione dell’indicibile intimo essere che, spinto da aria e sangue, correrebbe per divenir conscio. Osservatolo, ora possiamo capire, e quindi comprendere.

Per qual ragione si dovrebbe (o si deve) credere a storie raccontate? Alla narrazione? Ai vissuti loro? All’altrui esperienza? Cosa ci spinge ad apprendere facendo esperienza diretta di quel che leggiamo o sentiamo, o crediamo? Perché non limitarci nel nostro nulla a quel che viviamo in essere primo? Perché dovrei credere a eventi passati, uomini morti, letteratura? E perché dovrei financo negare tutto ciò? Sin dove mi può portar sopravvivere nell’attesa di un perduto Edinu? Coglierò informazioni sullo psichico se mi atterrò al cammino percorso da Adapa? Quante traslitterazioni saranno necessarie per liberare i miei pensieri da una storia che percorre il circolar tempo e muove sempre gli stessi personaggi, lo stesso racconto, lo stesso formato viaggio dell’eroe? Quando, caduto in trappola nella fitta tela di una reboante roccia che ne ha viste e vissute, colpirò l’indicibile intimo essere assumendolo, e così assumendo pienezza di ciò che l’uomo è e di ciò che sono? Quando, pienamente corroborato, smantellerò l’altisonante nulla goffo di scarsa sostanza?

Mi esorto a rimanere rettamente nel dubbio. L’autoeducarsi spinge a non crollare sul conosciuto. Ergiamoci stabilmente retti sull’indagine del saputo, per non rivestire i panni del sentimento del pensar del popolo.

Non dotto, mi dovrò pur spingere oltre, indossando i panni dell’esigenza incalzante che per mezzo di questa sete avvertita ricorda non vi sia tregua in questo luogo. Quindi, sulle curiosità della particella Shu, in un luogo ameno che par sia l’unico vero amico dell’uomo, ricercherò il lume che mi aiuterà a scegliere l’approfondimento o l’abbandono (forse utile e corretto) della toponomastica legata al vento, alla luce, alla grande Enneade, sulla via Shumer, sul collegamento Šhamaš, sulle tracce Shasu, percorrendo le radici fino al ghiaccio, mancando l’inizio della pesca a vuoto di antiche città sommerse. Se cadrò su passi, incalcati ai più, ormati da sapienti parlanti Marathi, Hindi, Tamil, partecipanti di familiarità con Śu e Ṣu, tenterò di far breccia sulle forme psichiche che muovendo bisogni ricercano illusione per soddisfare una pulsione che, se non impasta origine, altro non è che un primo composto di credenza e fede, basilare per l’uomo liquido che sopravvive a condizionamenti. Dovrò far tappa Shingon, vera parola, e Shingon — shū, osservando lo shugendō. Lignaggi son queste radici. Non potranno non condurre che a un luogo, il quale sarà possibilmente divenuto vincolante forma pensiero, per astrazione.

L’indagine mi par non si sia spinta oltre. Sento di non aver scalfito nemmeno il primo strato di una roccia sin troppo coriacea. Ma è questa l’unica su cui indagar qui, ove sono solo, vox clamantis in deserto.

A tutt’ora, sul freddo piano autopico, abbiamo l’uomo liquido, che così formato ci arriva dalle strade, dalle agenzie, dagli uffici, dai palazzi ministeriali, dalle case private, la scienza vuota, strumento politico di modifica cognitiva cogente, che descrive determinativi per alzata di mano, il narcisista, che per linea di sangue non risponderà alla domanda sul perché sia venuto al mondo, il perverso, quel ruggito intestino che tutto rovina donando il massimamente male, ignorando consapevolezza d’esistenza per pulsione di morte, le illusioni: le religioni, lo Stato, il romanticismo, la progenie del sapiens, la cronologia, la goffaggine medievale sulla distruzione dell’ultimo tempo tragico, la rottura moderna, il finir nella pochezza contemporanea, financo la vita. Su questo indifferente piano sembra mancare il primordiale. Dovremmo compensare la disimente assenza del protagonista della vera vita che si è perduto fondendosi nel terreno sabbioso della morte di valori e disvalori, lontano dalla realtà prima e dalla cosa vera, dalla concretezza e dal respiro. Oggi non è più dato sentire l’odore di quel soffio di vita. Oggi non è più dato beneficiare di quel sapore. Forse qui, nel silenzio, si può udir qualcosa di eufonico. Ma anche se provassi ad aggiungere sul grido di un nuovo vocabolo il tentativo anaptissico per sentir vibrare un eco epentetico, no, non sentirei alcun piacevole ritorno.

Riporterò il prossimo passo sul dolo della spinta pulsiva propria del narcisista sui determinativi: perverso e maligno.