Erano i famigerati anni ’80. Ci hanno spiegato, i dotti, che si veniva dagli anni di piombo di marca settantiana. Le rivoluzioni giovanili dei ’60 e ’70 avevano marchiato in modo indelebile il secondo ‘900. Il mondo era un subbuglio strepitoso, era tutto uno sparo: presidenti sparati a Dallas, uomini sparati sulla luna, uomini sparati per strada, Beatles sparati in America… Ora, negli ’80 e con quei trascorsi, la storia non poteva essere che in discesa: finalmente ricchi premi e cotillons! Niente più spari. Ma andò veramente così? Prendiamo come lente di ingrandimento la musica e, nella fattispecie, una band troppo avanti, tanto avanti che è rimasta indietro. Molti loro compagni di cordata sono ancora in auge perché il loro passo è lumacoso e chi sta intorno li sostiene ad ogni vagito gridando al miracolo. Loro no. I Simple Minds avevano munizioni buone e le hanno mandate fuori, nel mondo dotato di orecchie per sentire e menti per capire, but not simple minds!

I Simple Minds, come già gli svedesi Europe di Tempest (quelli di The Final Countdown, insomma), devono qualcosa a Mister David Bowie. Simple Minds è infatti un connubio di parole preso in prestito da un verso del Duca Bianco (i secondi invece, da una dichiarazione dello stesso Joey Tempest, devono a Space Oddity di Bowie l’ispirazione per la canzone dalle squillanti trombe epocali già citata). Ora, nel secondo decennio di questo millennio scontroso e arido di promesse, i Simple Minds, dopo alcune prove discografiche inaugurate nel post 1999 e che hanno contentato alcuni e scontentati altri, sono in giro con disinvoltura. Come è giusto che sia. A Ferrara hanno tenuto, nemmeno un mese fa, un concerto strepitoso all’insegna della ‘pazzia’ (così ha dichiarato un Jim Kerr allegro, usando un italiano stentato).

La band scozzese apre con l’energia mai sopita degli anni d’oro, investendo il pubblico con “Waterfront”. Smartphone e iPad si alzano al cielo, si vuole portare via gli istanti bloccati in quelle immagini estive di un evento eccezionale. Poi è la volta della recente “Broken Glass Park”, una delle incursioni dei Simple Minds nel repertorio meno lontano nel tempo. Quindi è la volta degli album storici “New Gold Dream” e “Once Upon a Time”, anticipati da una “Love Song” che riporta indietro di un bel po’ l’orologio di questi artisti. Non potevano mancare, in rapida successione, quattro “classici” immortali come “Mandela Day”, “Hunter and the Hunted”, “Promised You a Miracle” e “Glittering Prize”. Jim Kerr dialoga con il pubblico in estasi mistica. I suoi “evergreen” vengono affrontati, da un punto di vista vocale, con alterna fortuna ma sempre con grande carisma. A chiusura di questi appunti vale la pena segnalare come, in quegli anni da tutti ritenuti sbarazzini, i Simple Minds inizino a impegnarsi politicamente, alla stregua di Edoardo Bennato o De Gregori, o, per arrivare ai nostri tempi, il cantautore Mimmo Parisi. Kerr & company sostengono Amnesty International e producono concerti contro l’apartheid sudafricano. Proprio a questo momento storico appartiene l’album Street Fighting Years, comprendente il brano Mandela Day, scritto espressamente per il leader anti-segregazionista Nelson Mandela.

Diego Romero (Grazie a Massimo Albertini per la riproduzione)